Diverte «Il barbiere di Siviglia» di Paisiello con pochi mezzi ma molte idee
Gianmaria Aliverta è l’antibamboccione dell’opera. La sua storia è nota ai lettori della «Stampa» perché l’abbiamo già raccontata. In sintesi: colpito dal bacillo del melodramma, portatore insano di passione operistica, il giovane Aliverta prima l’opera l’ha cantata come corista e poi ha deciso di metterla in scena come regista. Invece di stare lì a lamentarsi perché nessuno gliela faceva fare, ha semplicemente deciso di farla, usando per le sue produzioni super economiche, low cost al quadrato, anche i proventi del suo precedente mestiere di cameriere. È nata così «Voce AllOpera», l’associazione che vuole dimostrare che chi fa l’opera (e chi ci va) non deve necessariamente essere over 50, anzi, e che per farla (e anche per andarci) non servono dei capitali. Basta investire sull’unica materia prima gratis disponibile sul mercato: le idee.
È nata così questa specie di Ryanair del melodramma che da alcuni anni, fra cambi di sede, alti e bassi (molti più alti che bassi, comunque), trovate pubblicitarie come un clamoroso flashmob in metropolitana, è ormai un piccolo grande classico dell’opera in città, con un suo pubblico di aficionados delle trovate del Nostro, in gergo «alivertate». Il quale Aliverta, 32 anni, a forza di inventare, ha iniziato una carriera registica «vera» e molto promettente, con scritture alla Fenice o al Maggio musicale fiorentino. Ma non molla «Voce AllOpera», che quest’anno torna nell’ennesima nuova sede, lo Spazio Teatro 89 di via Fratelli Zoia. Per gli operomani milanesi, è certo uno choc uscire dalle solite quattro strade chic, ma ogni tanto può anche far bene cercare un altro centro di gravità, benché non permanente.
La stagione si è aperta con «Il barbiere di Siviglia». La notizia è che non si tratta di quello di Rossini, ma del suo predecessore nell’hit parade operistica, quello di Giovanni Paisiello, scritto nel 1782 a Pietroburgo per Caterina II. Fra Paisiello e Rossini corrono 34 anni, una grande Rivoluzione, la fine di un mondo e l’inizio di un altro, anche musicale. Quanto a scatto, c’è la stessa differenza che fra una 500 e una Ferrari. Ma, nel suo genere, non è che la 500 sia meno capolavoro di una Ferrari. Se la fonte dei due è la stessa, Beaumarchais, e il libretto molto simile, sono diversissimi la musica e anche il senso dell’umorismo. Quello di Rossini è un teatro dell’assurdo, surreale, corrosivo, frenetico. Il tenero Paisiello invece espunge le velleità rivoluzionarie di Beaumarchais e licenzia una garbata commedia di caratteri, educata, elegante, sospirosa: non a caso, il pezzo più celebre del suo «Barbiere» (anche perché lo usò da par suo Kubrick in «Barry Lyndon») è la sognante serenata di Almaviva. Rossini ride; Paisiello sorride.
Detto questo, il 2016 era il bicentenario della morte di Paisiello, uno degli operisti italiani più importanti, e quasi nessuna delle nostre istituzioni musicali se n’è ricordata. A Milano, a salvare l’onore hanno provveduto, sia pure in ritardo di un paio di mesi, i giovanotti di «VoceAllOpera», quindi chapeau (en passant, vergognose le condizioni in cui versa la casa natale di Paisiello, a Taranto, quasi collassata: che vergogna).
La formula di questo «Barbiere» è quella solita dell’opera «Aliverta style». Orchestra ridotta, dodici elementi in totale (e sono già molti, per le consuetudini della casa) e tutti giovanissimi, volonterosi ed energici, diretti da Ferdinando Sulla che giustamente la butta sul ritmo e sull’energia. Bravissimo Fabio Maggio, che al pianoforte in scena accompagna con molto spirito i recitativi secchi, interviene nella vicenda e all’occorrenza fa anche da suggeritore.
Tutti «gggiovani» anche i cantanti, affiatati e chiaramente entusiasti. Graziana Palazzo era indisposta ma è venuta comunque a capo delle tre-arie-tre che Paisiello affida alla sua Rosina, una delle quali tutt’altro che comoda. Carlo Checchi è un Figaro eccezionalmente mobile: non capisco dove trovi il fiato per cantare mentre salta su e giù, ma evidentemente ci riesce. Néstor Losàn, Almaviva, ha messo in mostra un fisico aitante, una bella voce tenorile, molto gusto e un acuto un po’ avventuroso. Solidissimo e divertente il Bartolo di Luca Simonetti, impagabile il Basilio di Luca Vianello, istrionici e spassosi Maurizio De Valerio e Gabriele Faccialà, rispettivamente il Giovinotto e lo Svegliato, che non diventeranno, sono già due caratteristi di gran classe.
Spettacolo divertentissimo, si diceva. Le scene in pratica non ci sono, basta un po’ di attrezzeria, mentre i costumi di Sara Marcucci sono rimediati con grande ingegno. Quanto alla regia vera e propria, le attese «alivertate» arrivano puntualmente. E così Rosina entra tutta damina del Settecento e man mano che si ribella dalla tutela di Bartolo diventa una ragazza d’oggi in sneakers e t-shirt; Almaviva camuffato da maestro di musica è un santone new age che obbliga tutti a esercizi di respirazione e pose yoga; il maestro di musica Basilio è un ambiguo metallaro con tuba da Zucchero; lo Svegliato ovviamente non lascia mai il letto e il Giovinotto è gayissimo; il duetto d’amore fra Almaviva e Rosina è una vera scena erotica di grande tensione. Le due ore di spettacolo volano, il pubblico prima ride e poi applaude.
La stagione prosegue il 22 e 23 con «Madama Butterfly» di Puccini, regia di Yamala-Das Irmici, direttore Damiano Cerutti, poi il 3 aprile c’p un Concerto di belcanto a seguito di una masterclass di Chris Merritt. Infine, «L’incoronazione di Poppea» di Monteverdi ha di nuovo una regia di Aliverta, che però l’annuncia come la «prima serie tivù operistica», chissà. L’ennesima alivertata.
ALBERTO MATTIOLI su La Stampa