Solo una città come Venezia – libera, aperta e senza padroni per quasi un millennio – poteva consentire, già nel Settecento, l’affermazione della donna nella vita sociale e teatrale. Lo vediamo chiaramente nelle commedie di Carlo Goldoni, dove, a partire dagli anni Cinquanta, la protagonista femminile assurge al ruolo di vero e proprio leader. È la cosiddetta “donna di spirito”, che sostituisce il provincialismo d’orizzonti di Pantalone, ormai incapace di imporre agli altri il proprio modello di comportamento borghese.
L’affermazione della donna, in sintonia con la pubblicistica veneziana di tendenza illuministica, diventa occasione di teatro in una serie di lavori che culminano nel 1753 nella rappresentazione de La locandiera, il capolavoro in cui si completa la costruzione di questo tipo di personaggio: un apologo sull’uso lucido e spietato dell’intelligenza femminile come strumento di affermazione sociale.
La protagonista, Mirandolina, è una donna scaltra e calcolatrice, una profittatrice sfrontata fino al cinismo. In questo rivela le caratteristiche tipiche della sua classe: “vende” un servizio e dunque appartiene al ceto mercantile, di cui presenta le caratteristiche positive – laboriosità, senso pratico, fermezza di carattere – ma anche quelle negative. Nel rapporto con i clienti è sempre gentile, educata. Ma quando parla fra sé e si rivolge al pubblico, Mirandolina rivela la sua vera natura e proclama apertamente un vero e proprio programma di vita. Il suo contegno si regge sulla dissimulazione, gestita abilmente per raggiungere i fini prefissati. E tuttavia in lei non tutto si riduce a cinismo calcolatore. Si tratta di un personaggio più complesso: la determinazione nel far innamorare il cavaliere di Ripafratta è una rivalsa non solo sessista, ma anche classista e sociale.
Mirandolina non accetta di essere degradata a una condizione servile, vuole trattare alla pari con i nobili; per questo arriva a punire e a umiliare pubblicamente un esponente della classe superiore. È proprio il dominio esercitato sugli uomini ad appagare il suo sfrenato narcisismo: l’input segreto che la spinge a sedurre il cavaliere misogino, più che l’orgoglio femminile, è una smania dell’esercizio del potere che non tollera che alcuno vi si sottragga.
Per forza di cose, tutte queste implicazioni psicologiche, sociali e culturali verranno puntualmente disperse nei drammi giocosi che diversi compositori, attratti dalla modernità e dalla complessità del personaggio, ricaveranno dalla commedia di Goldoni. Le trasposizioni operistiche più fortunate sono senz’altro le Locandiere di Antonio Salieri (1773) e di Giovanni Simone Mayr (1800). Per il resto, è impossibile elencare tutte le versioni cadute nel dimenticatoio e scritte da una miriade di autori minori fra gli ultimi decenni del Settecento e il Novecento, tra i quali figurano carneadi come Guglielmi, Donadini, Nasolini, Locasto, Usiglio.
Pressoché sconosciuto al grande pubblico è anche Bohuslav Martinů (1890-1959), che in realtà è uno dei più prestigiosi compositori cechi del XX secolo e al quale si deve una riduzione del capolavoro goldoniano intitolata Mirandolina, ripresa in anni recenti da alcuni teatri italiani ed europei e ora proposta con grande successo al Teatro La Fenice di Venezia.
Sostanzialmente lontane da certe problematiche novecentesche, le opere di Martinů per il teatro musicale, come quelle per il repertorio sinfonico e cameristico, risentono all’inizio del folclorismo e degli stilemi tipici della scuola nazionale ceca per poi aprirsi a un accentuato eclettismo. Gli anni trascorsi a Parigi e il successivo trasferimento negli Stati Uniti determineranno infatti contaminazioni con il neoclassicismo francese e la lezione di Stravinskij, con il jazz e il repertorio popolare americano.
Oltre a queste influenze, nei tre atti di Mirandolina (Praga, 1959) ritroviamo una fitta serie di ulteriori rimandi teatrali e musicali: si va dalla commedia dell’arte ceca alSingspiel (i dialoghi sono infatti parlati), dalle citazioni di Mendelssohn agli omaggi operistici a Rossini e Puccini. Il risultato è una partitura decisamente di impianto sostanzialmente tonale, ma caratterizzata anche da impasti timbrici inediti, ritmi serrati e irregolari, frammenti melodici asimmetrici e cangianti. Il tutto tenuto insieme da un’attitudine ludica e da un senso dell’ironia quanto mai spiccati.
Decisamente più problematico il rapporto con il testo di Goldoni, che lo stesso Martinů inizialmente taglia e condensa in un libretto (in italiano) con esiti non del tutto convincenti. Anche se le difficoltà linguistiche saranno in gran parte risolte grazie all’intervento di un amico, Antonio Aniante, commediografo e scrittore siciliano conosciuto a Parigi, l’equilibrio fra musica e versi resta a tratti fragile.
Nonostante questo limite e la semplificazione eccessiva dell’adattamento,Mirandolina rispetta tuttavia una peculiarità del capolavoro goldoniano, ossia la dimensione della commedia come un organismo policentrico, in cui il risalto della protagonista non deprime ma anzi potenzia, in un fitto rapporto di reciprocità, il ruolo dei comprimari. Sul piano del gioco teatrale, pertanto, la coesistenza di più caratteri non produce mai conflittualità o scompensi.
La chiave di lettura proposta da Gianmaria Aliverta nell’edizione della Fenice tiene conto di questa caratteristica. Il giovane regista rispetta le diverse psicologie individuali, ma le colloca in un contesto attualizzato, offrendo nello specifico uno spaccato della società contemporanea ispirato all’immaginario cinematografico della commedia all’italiana. Per la precisione, Aliverta si rifà al filone trash costituito dalle pellicole a tema vacanziero e natalizio dei fratelli Vanzina, popolate da “mostri” certo meno cinici e geniali rispetto a quelli dei film di Risi, Monicelli e Scola, ma altrettanto rappresentativi.
La locanda settecentesca di Mirandolina diventa così un hotel moderno con tanto di “spa” dove, tra un massaggio, un idromassaggio e una sauna, si rilassano e si incontrano personaggi delle più varie classi. Un campione stratificato di società nel quale ritroviamo le antiche contrapposizioni tra Nord e Sud, tra bauscia milanesi (il marchese di Forlimpopoli) e tamarri romani arricchiti (il conte d’Albafiorita). In un susseguirsi di gag e trovate spiritose, sfilano anche burine coatte (Ortensia e Deianira), il massaggiatore (Fabrizio) e naturalmente la donna manager, Mirandolina.
A lei e al misogino cavaliere di Ripafratta il regista riserva uno scavo maggiore dal punto di vista psicologico. Si capisce, in particolare, che la finzione in Mirandolina non è uno strumento per apparire diversi e migliori di quello che si è, come nel caso degli altri personaggi, ma il solo codice di vita possibile, l’unico che le permetta di ribadire la propria intelligenza e volontà di potere.
Il ritmo serrato dello spettacolo è favorito anche dall’essenziale impianto scenico firmato da Massimo Checchetto, una struttura rotante che ospita via via i locali in cui si svolge l’azione: la zona benessere, la lavanderia, la camera del conte. Gli interpreti, quando non girano per la scena in mutande e accappatoio, indossano gli estrosi costumi di Carlos Tieppo.
Sul versante esecutivo, John Axelrod ha impresso all’opera una dose cospicua di brillantezza ed energia: un vitalismo che definirei quasi rossiniano. La sua direzione è riuscita inoltre a valorizzare i riferimenti al colore slavo che caratterizzano la partitura, superando allo stesso tempo le insidie rappresentate da certi fraseggi irregolari e dall’andamento poliritmico e sincopato del linguaggio musicale di Martinů. Qua e là, se vogliamo, si sarebbero desiderate più varietà nei chiaroscuri e una maggiore levità nel restituire il lirismo di alcune pagine.
Ottima l’intesa con i cantanti, tutti disinvolti e credibili in scena. La protagonista era Silvia Frigato, voce chiara e di volume contenuto ma capace, grazie anche alla frequentazione del repertorio barocco, di muoversi con agilità e precisione in una scrittura impegnativa. Una Mirandolina insomma apprezzabile, espressiva nel fraseggio e vivace nell’accento.
Nei panni del cavaliere di Ripafratta Omar Montanari si è imposto sia per la vocalità ben timbrata e corretta, che per la misura della caratterizzazione, mentre Marcello Nardis e Bruno Taddia si sono fatti apprezzare soprattutto per il divertente taglio vanziniano e tamarro conferito ai rispettivi personaggi: il conte di Albafiorita e il marchese di Forlimpopoli.
Impeccabile sotto ogni profilo il Fabrizio di Leonardo Cortellazzi e convincenti pure le due comiche: Giulia Della Peruta, Ortensia, e Laura Verrecchia, Deianira.
di Roberto Mori su L’OPERA
Torna a RASSEGNA STAMPA MIRANDOLINA