Cameriere per sei mesi, regista e “impresario” d’opera gli altri sei. Così Gianmaria Aliverta porta in scene Barbieri, Elisir e Traviate (moderna o di tradizione, a scelta). Budget risicati, formato mignon ma molte idee. Che gli hanno procurato l’ingaggio alla Fenice
L’antibamboccione si chiama Gianmaria Aliverta, ha 30 anni e un’insana passione per l’Opera. Ma lui l’Opera vuole farla, non limitarsi a vederla. Ha studiato canto, è un tenore di mezzi vocali non enormi (la parte più impor-tante che ha interpretato è quella del Cameriere – ironia della sorte, come si vedrà – nella Notte di un nevrastenico di Rota), ha cantato nel coro dell’As. Li.Co. e in giro per l’Italia. Poi però ha scoperto che la sua vera vocazione è la regia. E fin qui niente di strano: il mondo è pieno di ragazzi che vogliono fare gli artisti. Il punto è che Aliverta non è stato li ad aspettare occasioni che non arrivano, a provare a vincere concorsi che si rivelano inutili o a fare flanella nell’anticamera di qualche assessore alla Cultura analfabeta, di quelli – quasi tutti – modello “Verdi, chi?”. Si è rimboccato le maniche, ha fondato l’associazione “VoceAllOpera” di cui è presidente e che manda avanti con un po’ di amici e l’Opera si è messo a prodursela in casa, fai-da-te, “made in Aliverta”, supplendo alla modestia dei mezzi con le idee, che a differenza di scene e costumi non costano niente. Per sei mesi, il giovin regista fa il cameriere in un ristorante-pizzeria di Stresa, e così trova i soldi per l’Opera. Per gli altri sei mesi, li spende mettendola in scena. Due anni fa, Aliverta si è impossessato del Rosetum, cinema-teatro milanese di frati, con una buona tradizione lirica risa-lente all’inaugurazione, che nel 1957 fu officiata nientemeno che da Maria Callas, e l’ha gestito per un biennio. Dell’ultima stagione alivertiana chi scrive ha visto una Bohème costata in tutto 500 euro, cioè l’equivalente di un biglietto al turno lusso del Festival di Salisburgo o di due poltrone di platea alla Scala. L’idea era che i bohèmiens di oggi siano gli studenti dell’Erasmus (in effetti…), di regola sistemati alla peggio in alloggi che sul momento ti fanno senso e in seguito, con il senno e la carriera di poi, ricordi quasi con nostalgia. La barriera d’Enfer era uno di quei divisori di plastica arancione che indicano gli eterni lavori in corso delle nostre città, Rodolfo un poeta 2.0 sempre al computer, Marcello un videoartista e così via. Fun-zionava tutto perfettamente. Ma pare che L’elisir d’amore fosse ancora meglio, con tan-to di bara e necrologio per lo zio di Nemorino che defunge durante il coro di pettegole (“Satia possibile?”) e riferi-menti alla campagna elettorale, con un Dulcamara molto berlusconiano (in effetti, e due…). E poi c’era anche un celebrato Barbiere di Siviglia pieno di citazioni dalla com-media all’italiana, con Figaro sullo skateboard e Almaviva travestito prima da Rambo e poi da Renato Zero dei bei temi, e accolto da risate omeriche. Ovviamente era in formato mignon anche tutto il resto: orche-stra ridotta a tre-quattro strumenti, cantanti (alcuni inaspettatamente buoni) scelti dopo pubbliche audizioni modello X Factor, scene riciclate, costumi idem, insomma arte povera ma bella. Lirica a basso costo sia per chi l’ha fatta perché, si sa, con la paga da cameriere non si può far molto ed esiste un unico sponsor privato, cioè una munifica signora milanese, ma anche per chi l’ha sentita, poiché il costo dei biglietti andava da un massimo di 26 a un minimo di 10 euro. Tutto low cost, insomma, proprio come i voli più gettonati dai giovani. E infatti la stagione del Rosetum ha avuto lo stesso pubblico. Per una volta l’opera ha attirato anche dei ragazzi, non solo i consueti reperti assiro-milanesi. Risultato: un successone, certificato anche dalla critica, o almeno da quella poca che ha il coraggio di mettere ogni tanto il nasino fuori dalla Scala. Certo, erano una mini Bohème, un Elisir mignon e un Barbie-rino: ma erano sena dubbio Bohème ed Rifalle Barbiere, pieni di idee se non di soldi, quindi forse più autentici che in altre blasonate e costose realtà. Dietro il progetto di Aliverta, che è molto meno naif di quello che sembra e che abbiamo raccontato fin qui, ci sono in realtà due constatazioni, entrambe condivisibili. La prima è che l’opera dev’essere per tutti, uscire ogni tanto dai gloriosi e polverosi velluti e andare incontro al pubblico, magari quello nuovo e non le solite care salme. La montagna e Maometto, in un certo qual modo. La se-conda, è che questo pubblico si può trovare, e contemporaneamente l’opera ritrovare un senso, se il teatro musi-cale smette di essere il museo di se stesso e torna a fare quello che ha sempre saputo fare, specie in Italia: parlare di noi stessi. “Bisogna mettere l’opera alla portata di tutti, perché è un patrimonio di tutti. Per farlo, non servono né i teli dipinti né le calzamaglie. E nemmeno tanti soldi”, spiega Aliverta. Funziona? Certo. Infatti per la stagione 2014-15 si repli-ca, ma stavolta al Filodrammatici, insomma proprio sotto il naso della Scala (e chissà se qualcuno uscirà dal Tem-pio per andare a dare un’occhiata). In cartellone, L’elisir d’amore, Cavalleria rusticana (non si sa ancora in quale accoppiata: non Pagliacci, ma o Gianni Schicchi oppure La voix humaine) e una Traviata in due produzioni di-verse: tradizionale e moderna. Nel frattempo, le vecchie produzioni vengono riciclate in giro per l’Italia come un carro di Tespi deambulante fra cascine lombarde, piazze di paesini liguri, corti di ville emiliane. Ma anche al teatro Nuovo, sempre a Milano, in due pomeridiane: il 4 dicembre, in diretta concorrenza con la “primina” della Scala, per un’ennesima Traviata (ma diversa dalle due che saranno presentate del Filodrammatici) e il 26 di marzo l’ormai collaudatissimo Barbiere di Siviglia. Nel frattempo, Aliverta si è anche inventato un festival estivo sulla sponda piemontese del lago Maggiore, ovviamente proposto con modalità del tutto innovative: “Per esempio”, anticipa, “il pubblico non siederà su poltrone ma direttamente sui plaid nei prati, e come scene avremo sol-tanto i magnifici panorami della zona. Opera delocalizzata, insomma. I titoli dobbiamo ancora deciderli, ma saran-no naturalmente abbastanza popolari. E di sicuro chiuderemo con una Sagra dell’opera, sì, una vera festa di piazza con le salamene e le birre, solo che questa volta si festeggerà il melo-dramma”. Intanto qualcuno del mondo dell’opera “vera” si è accorto dell’esistenza di questo strano fenomeno. Si tratta di Fortunato Ortombina, direttore artisti-co della Fenice e uno dei pochi in Italia a saper davvero fare il suo mestiere, che ha guardato su Youtube qualche estratto delle produzioni di Aliverta e ha deciso di dargli una chance. Così l’antibamboccione debutterà nella stagione 2014-15 veneziana, al Malibran, in cartellone appena prima della Zauberflote di Damiano Michieletto alla Fenice (“Mi sembra di sognare”, dice Aliverta) con l’intrigante dittico formato dal Diario di uno scomparso di Janàcek e dalla Voix humaine di Poulenc. Ovviamente non si tratta di produzioni lussuose, anche perché in scena ci sono in tutto e per tutto due cantanti, uno per titolo. Ma ad Aliverta, abituato a riciclare cassette di frutta come quinte e a utilizzare costumi pescati nei mercatini, sembra già di navigare nell’oro: budget che mi hanno assegnato è basso per un gran-de teatro ma a me pare altissimo. E so già che non lo spenderò tutto”.
ALBERTO MATTIOLI su ClassicVoice
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