Alberto Mattioli La Stampa

Passerà nel lungo catalogo delle malefatte registiche come «il Rigoletto trans», e già pregustiamo la solita litania dei commenti prêt-à-penser sui social, da «se questi registi vogliono cambiare le opere se le scrivano loro» a «l’importante è la musica», fino ovviamente al più lapidario di tutti, «povero Verdi!».

Poveri noi. Allora, per raccontare cos’è e com’è il Rigoletto di VoceAllOpera e del suo presidente-demiurgo-regista-anima, il folle genietto Gianmaria Aliverta, ieri sera allo SpazioTeatro89, bisogna fare un po’ di chiarezza. Intanto, questo Rigoletto non è un trans, ma un travestito: un uomo che si veste da donna per far ridere la corte di depravati nella quale vive e procacciare nuove escort al Duca che la domina. Non è per nulla gratuito o, come si dice in cretinese, «provocatorio». Tutto il personaggio di Rigoletto è costruito sulla sua doppiezza: «serpente» (dice Verdi per interposto Monterone) in pubblico e padre affettuoso in privato, aggressivo in casa del Duca e amorevole nella sua. La gobba non è che un simbolo: solo che «il gobbo che canta» di cui si era innamorato Verdi poteva scandalizzare il pubblico dell’Ottocento, insieme con le prostitute, i sicari, il sacco, il Duca porcellone e quant’altro oggi non ci scandalizza più.

Bisogna quindi rendere lo choc di Rigoletto. Ecco quindi che la sua deformità fisica, specchio di quella morale, diventa il travestitismo. E qui siamo subito colpiti e affondati, perché, per quanto blasé possiamo essere, ancora ci colpisce e ci turba che papà porti il caschetto e i tacchi. Allo stesso modo, l’«orgia» (sempre Verdi, e sempre via Monterone) del primo atto tale dev’essere, via, siamo adulti e vaccinati, andiamo al cinema, guardiamo la tivù o, peggio, Internet. E allora vai con concretissimi atti sessuali, nuvole di cocaina sniffata direttamente addosso alla fanciulla di turno (a giudicare dagli sbuffi, perfino troppa, con quel che costa, poi…), cortigiani-maiali con maschere da porco sulla faccia.

Per fare Rigoletto basta davvero pochissimo: un letto, un po’ di palloncini (non c’è regia di Aliverta se non c’è un palloncino, tipo Pizzi con le piume, sarà qualche trauma infantile), un po’ di calcinacci per la periferia delabré del terzo atto. Gilda vive in un mondo tutto rosa da bambinona mai cresciuta, rosa le scarpe da ginnastica, il rosario al polso, la coperta del letto, esibendo l’album con le foto della mamma morto e l’orsacchiotto. E qui, ammettiamolo, nel primo duettone con Rigoletto si è un po’ sbuffato: ancora una Gilda con il teddy bear del suo cuore? Poi, al secondo atto, ri-ammettiamolo, Aliverta ci ha fregato ancora una volta con la sua capacità di ribaltare le situazioni e rendere eversivi i luoghi comuni, quando il Duca viene a cantare la sua insincera aria d’amore abbracciato a un altro orsacchiotto, stavolta formato XXL. Le idee, come si vede, non mancano. Di conseguenza, questo Rigoletto tutto sesso, droga e Verdi non solo funziona bene, ma è fra i più autenticamente verdiani visti negli ultimi anni. Anche (o forse soprattutto) se è fatto con niente, a parte l’intelligenza che è gratis.