Mirandolina pop e la Tosca di Vanzina. Così l’opera diventa un cinepanettone

Alla Fenice la commedia con la regia di Aliverta tra gag e scene da centro benessere

Il conte d’Albafiorita ricorda Verdone in versione gallo cedrone, il marchese di Forlimpopoli il «cumenda» di Guido Nicheli in vacanza a Cortina nei cinepanettoni più famigerati. Solo che siamo all’opera, sulle nobili ma non polverose scene della Fenice, dove si riesuma Mirandolina di Bohuslav Martinu («prima», postuma, nel 1959), su un libretto in italiano dello stesso Martunu che, tratto ovviamente dalla Locandiera di Goldoni, testimonia del suo amore per la nostra lingua, per la verità poco ricambiato. Però a Venezia Mirandolina diventa un irresistibile gioco di citazioni sulla commedia all’italiana più vanzinesca, dove gli under 50 (sembrerà incredibile, ma all’opera talvolta ci vanno pure loro) ritrovano gag e situazioni e personaggi della risata made in Italy, e nemmeno della più sofisticata.  

Il colpevole è il giovin regista Gianmaria Aliverta che è pure recidivo, perché ogni volta che mette in scena una commedia fa puntualmente divertire tutti. Si tratta di quel matto di genio che faceva il cameriere per metà anno e nell’altra metà investiva stipendio e mance in gustose produzioni liriche fai-da-te, già allora irresistibili. Visto che perfino in Italia, ogni tanto, esiste la meritocrazia, adesso l’Aliverta è un regista in carriera. Ma non ha perso la capacità di montare spettacoli con niente, preziosa di questi tempi in cui i teatri non possono più spandere e nemmeno spendere.

E così nella scenografia low cost ma azzeccatissima di Massimo Checchetto, la locanda diventa un centro benessere contemporaneo, un «non luogo», per dirla con Marc Augé, dove il gioco dei caratteri e delle caratterizzazioni è ancor più stringente. E dunque le due false nobili Ortensia e Deianira sono due spaventose coatte con la cicca sempre in bocca, i nobili pretendenti le eterne maschere regionali della nostra commedia, Mirandolina una donna in carriera, il suo innamorato cameriere Fabrizio un massaggiatore, e così via.

Ridono e applaudono perfino i pasdaran della parrucca incipriata. Nessuno scandalo, e per almeno due buone ragioni. La prima è che già Martinu dà una lettura un po’ unidimensionale di Goldoni, fermandosi alla superficie dei caratteri e alla meccanica dell’intreccio: che nell’originale le maschere siano personaggi gli sfugge, o non gli interessa. La seconda è che quest’ambientazione appare perfetta per la sua musica così novecentesca, dove si frullano in un fitto intreccio contrappuntistico Stravinsky, Janacek, le citazioni del Settecento e magari anche il jazz. I selfie e i trolley stonerebbero (forse) in un Goldoni musicato da Wolf-Ferrari; qui, no.

La direzione di John Axelrod garantisce ritmo e brillantezza quasi da musical, anche se l’orchestra appare un po’ bloccata su un eterno forte. In scena, sono tutti davvero bravissimi. Da applausi (puntualmente arrivati) Omar Montanari, Bruno Taddia, Marcello Nardis, Leonardo Cortellazzi, mentre è una vera rivelazione la peperina protagonista, Silvia Frigato. A proposito di Vanzina: la notizia è che Enrico debutta all’opera, regista di Tosca a Torre del Lago. Adesso non sono più amici, ma Christian De Sica, in effetti, come Cavaradossi sarebbe perfetto.

Alberto Mattioli su La Stampa

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