Legare due atti unici in musica tra di loro diversissimi è impresa difficile ed al contempo sfida affascinante. Zápisník zmizelého (Il diario di uno scomparso) e La voix humaine non hanno, all’apparenza nulla in comune: straniante affresco rurale il primo, sofisticato dramma borghese la seconda. Il filo conduttore sta nella presa di coscienza del proprio stato dei protagonisti, il contadino boemo Jan che sceglie di abbandonare famiglia e tradizioni in nome dell’Amore e della Libertà e della Donna, che subisce invece l’abbandono da parte dell’amante. La liaison si estrinseca dunque nel contrasto, non nella similitudine e così il percorso intrapreso nella doppia messa in scena da Gianmaria Aliverta risulta corretto e complessivamente convincente, con qualche piccolo distinguo dovuto, con tutta probabilità, al voler esprime molti concetti in poco spazio.
Nell’idea di Aliverta, che prende forma in un suggestivo spazio scenico di stampo espressionistico ideato da Massimo Checchetto ed illuminato benissimo da Fabio Barettin, Jan è l’uomo che sedotto dalla libera e sensuale zingara Zefka decide di abbandonare la Donna, il suo passato, durante un’ultima conversazione telefonica.
L’azione è racchiusa in un’unica stanza, alla quale fa da sfondo una sorta di paravento traslucido, nella quale pochi mobili definiscono una stanza da letto ed un salotto nell’atto unico di Janáček, trasformandosi in una sala d’attesa ed in un ambiente celato da una tenda in quello di Poulenc; il bianco, ottico e riflettente, domina incontrastato e permette alle ombre di stagliarsi sulle pareti.
La narrazione del Diario di uno scomparso avviene in forma di racconto a ritroso, col protagonista in veste di io narrante che affida ad un mimo, il bravoFrancesco Bortolozzo, la rappresentazione scenica di se stesso. Ne La voix humaine la Donna si aggira stralunata in un ambiente asettico ed inizialmente indefinito, il telefono è del tutto accessorio nel suo crescente vaniloquio; parla da sola la donna, vede i fantasmi dell’amato, lo stesso Jan-mimo, la zingara incinta. In un crescendo drammatico la cortina, che cela ciò che era stata l’alcova del Racconto, si apre, rivelando una camera mortuaria nella quale è composto il cadavere dell’uomo, ucciso dalla Donna stessa che, liberandosi da chi la sta per ammanettare, si toglie a sua volta la vita con un colpo di pistola.
L’azione è fluida, conseguente, a tratti un po’ penalizzata da una gestualità troppo insistita ma comunque efficace.
Belli i costumi contemporanei di Carlos Tieppo.
Di ottimo livello ci è sembrata la parte musicale.
Nel Racconto di uno scomparso Leonardo Cortellazzi dà voce e corpo ad uno Jan dal fraseggio che cresce in consapevole spavalderia nel corso dell’azione ma che, allo stesso tempo, vibra di dubbi ed emozioni che si riaffacciano a più riprese, rendendo l’assunzione di consapevolezza di una nuova esistenza possibile ed auspicabile, più complessa. Cortellazzi canta assai bene, con la sensibilità e la precisione del barocchista prestate al Novecento.
Ottima anche la Zefka sensuale e dalla voce ambrata e ferina di Angela Nicoli, precisa nella linea di canto e ricca negli accenti.
Puntuali nei loro interventi le Tre voci femminili diLoriana Marin, Gabriella Pellos e Alessandra Vavasori.
Claudio Marino Moretti mette a disposizione dell’opera di Janáček un pianismo di straordinaria densità sonora, coniugata ad una percussività presente ma mai soverchiante che ben sottolinea l’ambito agreste nel quale ha luogo la vicenda ed unita a belle morbidezze.
Ne La voix humaine giganteggia Ángeles Blancas Gulín, ancora una volta protagonista di una prova maiuscola per intensità interpretativa, padronanza assoluta nel fraseggiare, emozionante nella vocalità.
Francesco Lanzillotta mostra di avere assimilato completamente la lezione di Poulenc e rende la partitura con scabra essenzialità, sempre attento a non cadere in un melodismo inappropriato che pure il respiro degli archi potrebbe a tratti suggerire e che, invece, è il contrario esatto di quanto La voix richiede.
Pennellate rapide di colore, dinamiche stringenti, agogiche aguzze, scelte ritmiche incalzanti sono le scelte che rendono la lettura di Lanzillotta convincente e condivisibile.
Successo pieno per tutti, peccato che il teatro fosse pieno a metà. Putroppo il Malibran non è un luogo da selfie.
Alessandro Cammarano su Operaclick