Gianmaria Aliverta dopo il successo di “Poppea” debutterà alla Fenice
A volte succede. Perfino in Italia e addirittura nel mondo parastatale e asfittico dell’opera lirica. Succede che qualche giovane faccia carriera, o almeno inizi, perché se lo merita e non perché fornito di padrini o padroni giusti. Certo deve trovare l’ambiente adatto. Tipo il Festival della Valle d’Itria, con le sue rarità operistiche fra i palagi e le chiese barocche dell’incantevole Martina Franca, uno di quei posti in cui si arriva dall’Italia degli Allevi e dei Bocelli e sembra di atterrare su Marte. Ma sì, diciamola la parolaccia: uno di quei posti dove si cerca ancora di fare cultura.
Quest’anno il festival ha dato la sua occasione a Gianmaria Aliverta, una specie di Cenerentolo della lirica. Aliverta, 31 anni, è un piemontese lacustre che tempo fa ha deciso che voleva fare il regista d’opera. Però invece di stare ad aspettare provvidenze o di bussare alla porta di assessori alla cultura modello «Verdi, chi?», si è rimboccato le maniche e l’opera si è messo a farsela in casa, con produzioni low cost dove la povertà dei mezzi è inversamente proporzionale alla ricchezza delle idee, l’unica cosa al mondo che non costa niente. Per sei mesi all’anno, l’Aliverta fa il cameriere in una pizzeria di Stresa; negli altri sei, investe lo stipendio affittando dei teatrini milanesi per farci l’opera a modo suo, che poi secondo chi scrive è anche il modo giusto. E per farlo sapere in giro, spedisce i suoi cantanti ad attaccare il brindisi della Traviata nella metro, e così i pendolari hanno qualcosa da raccontare a casa.
Dai e dai, se ne sono accorti molti appassionati, qualche giornale e alcuni direttori artistici svegli, che nonostante tutto ci sono. Come Alberto Triola di Martina, che al giovin regista ha commissionato una «riduzione drammaturgica» e relativa regia dell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi, il capolavoro ottimo massimo del nostro Seicento, l’opera che avrebbe scritto Shakespeare se avesse deciso di fare il musicista. Risultato confortante: per 4 mila euro di spesa di scene e costumi, cioè quisquilie, una Poppea fatta e finita, forse perfino troppo cauta ma assolutamente convincente, con i cantanti che recitano (benissimo, per inciso) praticamente in mezzo al pubblico, nel piccolo delizioso chiostro di San Domenico.
Molti i momenti da ricordare: Ottone che canta il suo amore liberando verso il cielo dei palloncini rossi a forma di cuore, Mercurio in sneakers alate e pattini a rotelle, un duetto fra Nerone e Poppea come una voluttuosa tenera telefonata d’amore. Alto e basso, comico e tragico, sesso e sangue, battute ciniche e colpi di scena a ripetizione: Monteverdi è meglio di qualsiasi serie tivù, anche perché finalmente si capisce ogni parola dell’immenso libretto di Busenello. E aggiungete che l’orchestra con strumenti originali giudiziosamente diretta da Antonio Greco è buona e i giovani dell’Accademia del belcanto belli e bravi (ma bisogna almeno segnalare l’israeliana Shaked Bar che faceva Nerone: un soprano che, se non farà sciocchezze e non ne subirà da parte di agenti e direttori artistici, ha un gran bel futuro davanti).
Aliverta annuncia debutti alla Fenice (un dittico Janacek-Poulenc) e a Firenze (Hänsel e Gretel): magari la meritocrazia esiste davvero. Intanto, gran successo in Valle d’Itria. Si esce con un po’ più di fiducia nell’opera, nell’Italia e magari in noi stessi, che sono poi la stessa cosa. Sollevati e lievi come un palloncino rosso che sale nel cielo azzurrissimo di Martina Franca.
ALBERTO MATTIOLI su La Stampa