Novara: l’incontro tra Suor Angelica e Cavalleria, nel cuore di una donna

Marco Ubezio Le Salon Musical

Il cuore di una donna contiene i segreti del mondo intero. A differenza delle apparenze è tutt’altro che una frase in cui avvolgere un cioccolatino, se non altro perché tale assunto sta alla base della nostra civiltà. Nel grembo segreto di una donna è contenuta la rivoluzione cristiana.  E che siamo eredi di quella folle idea è un dato di fatto ancor prima che di fede, per questo lo scandalo del Natale continua a provocare, anche i non credenti.

Intorno a questa riflessione si snoda la scelta narrativa operata da Gianmaria Aliverta nella messa in scena dell’inedito dittico Suor Angelica/Cavalleria Rusticana che ha debuttato a ottobre a Livorno e che a metà dicembre è approdato al Coccia di Novara.

L’opera della maturità pucciniana e lo sfolgorante debutto di Mascagni, quasi un cerchio che si chiude per i due compositori toscani che agli esordi avevano condiviso la medesima soffitta milanese, in un clima che doveva forse ricordare quello di Bohème, eccezion fatta per la più nutrita presenza femminile, vista la buona fama di cui godevano tra il gentil sesso i due sagaci coinquilini.

Per tornare al cuore delle donne, in scena lo stesso ha trovato rappresentazione concreta in un cuore votivo sbalzato nell’argento che ha travalicato i due atti unici, celando al suo interno la foto di un bambino ma forse anche dell’uomo che ne è il padre. La chiave di volta della regia di Aliverta sta nell’intuizione di una Suor Angelica che sceglie la via della clausura non solo per scontare un peccato d’amore ma anche per purgare la morte dell’amato, padre della creatura da cui è stata dolorosamente separata.

Spettacolo carico di simboli questo e tutti piuttosto azzeccati, al leitmotiv del cuore votivo si affianca quello del calice. Lo stesso calice, in un filo davvero rosso sangue, raccoglie il vino che inebria Turiddu e la pozione mortale di Suor Angelica e infine il coltello, quello che uccide Turridu sarà lo stesso con cui Suor Angelica reitererà i suoi istinti suicidi.

Suor Angelica è dunque una Lola che nessuna vera pace ha trovato nel segreto del Convento, sottoposta insieme alle consorelle a sadici riti di espiazione che nulla hanno di cristiano, uno spirito plasticamente incarnato dal gesto della suora Zelatrice che, con espressione sadica, si premura di riconficcare il pugnale scivolato dalla statua della Vergine Addolorata. È lo stesso cristianesimo ipocrita e dal sapore un po’ pagano che si ritrova nel borgo siciliano in cui si snoda Cavalleria.

Apprezzabile in Aliverta l’idea di rappresentare l’ipocrisia di un cristianesimo che tradisce la sua genesi (il Bambino di Natale non è certo arrivato a portare sensi di colpa ma piuttosto a sollevarli) senza cadere nei facili cliché anticlericali che abbagliano diversi tra i suoi illustri colleghi.

Cavalleria come antefatto di Suor Angelica, l’una flashback dell’altra

Alberto Mattioli La Stampa

Lo si ripete ad nauseam, speriamo solo metaforica: nella provincia italiana si fanno anche egregie cose, come se la limitatezza dei mezzi aguzzasse l’ingegno e stimolasse il contenuto delle scatole craniche dei direttori artistici, concesso e non dato che qualcosa dentro effettivamente ci sia. Sicuramente sì al Goldoni di Livorno, che ha aperto la stagione con un dittico formato da Suor Angelica di Puccini e Cavalleria rusticana di Mascagni, «enfant du pays» peraltro forse dal pays non troppo amato. L’accoppiata è certamente meno insolita di Cav & Pag ma non inedita. L’idea stuzzicante non è tanto il cosa quanto il come, perché il giovin regista Gianmaria Aliverta, che è o un pazzo o un genio o tutti e due insieme (propendiamo per la terza ipotesi ma con una prevalenza statistica della prima), ha deciso di trattarlo come un dittico «vero»: insomma, Cavalleriacome antefatto di Suor Angelica, l’una flashback dell’altra.

Stessa la scena, solo capovolta: l’interno di una chiesa per Puccini, l’esterno per Mascagni. E stessi i personaggi, con Angelica che prima del fattaccio e del figlio della colpa era Lola, e la zia Principessa che ha avuto una clamorosa ascensione sociale da quando faceva mamma Lucia nella deep Sicilia. Nel finale di Suor Angelica, quando lei apre l’armadio delle medicine per estrarne la pozione fatale, si vede comparire il ritratto di un tale che si rivela poi essere il seduttore, accanto a ritagli di giornale con titoli a caratteri cubitali: «Hanno ammazzato compare Turiddu». Naturalmente questa bella regia non si ferma alla trovata. In Puccini, si apprezzano il rigore geometrico con il quale si muovono le suore, metafora di quello conventuale; in Mascagni, l’ottima gestione degli attori e l’addio non solo alla madre, ma anche ai cliché siculi più tipici, tipo fichi d’india e coppole e carretti. Al loro posto, una riflessione sulla religiosità cattolica più tradizionale e ancestrale, con le sue Madonne-grandi madre mediterranee e il suo eterno barocco, quando all’«Inneggiamo!» la scena (di Francesco Bondì, i costumi sono di Sara Marcucci) si apre in un tableau di sontuosità quasi pizziana. Bellissimo spettacolo, insomma.