Alberto Mattioli La Stampa
Lo si ripete ad nauseam, speriamo solo metaforica: nella provincia italiana si fanno anche egregie cose, come se la limitatezza dei mezzi aguzzasse l’ingegno e stimolasse il contenuto delle scatole craniche dei direttori artistici, concesso e non dato che qualcosa dentro effettivamente ci sia. Sicuramente sì al Goldoni di Livorno, che ha aperto la stagione con un dittico formato da Suor Angelica di Puccini e Cavalleria rusticana di Mascagni, «enfant du pays» peraltro forse dal pays non troppo amato. L’accoppiata è certamente meno insolita di Cav & Pag ma non inedita. L’idea stuzzicante non è tanto il cosa quanto il come, perché il giovin regista Gianmaria Aliverta, che è o un pazzo o un genio o tutti e due insieme (propendiamo per la terza ipotesi ma con una prevalenza statistica della prima), ha deciso di trattarlo come un dittico «vero»: insomma, Cavalleriacome antefatto di Suor Angelica, l’una flashback dell’altra.
Stessa la scena, solo capovolta: l’interno di una chiesa per Puccini, l’esterno per Mascagni. E stessi i personaggi, con Angelica che prima del fattaccio e del figlio della colpa era Lola, e la zia Principessa che ha avuto una clamorosa ascensione sociale da quando faceva mamma Lucia nella deep Sicilia. Nel finale di Suor Angelica, quando lei apre l’armadio delle medicine per estrarne la pozione fatale, si vede comparire il ritratto di un tale che si rivela poi essere il seduttore, accanto a ritagli di giornale con titoli a caratteri cubitali: «Hanno ammazzato compare Turiddu». Naturalmente questa bella regia non si ferma alla trovata. In Puccini, si apprezzano il rigore geometrico con il quale si muovono le suore, metafora di quello conventuale; in Mascagni, l’ottima gestione degli attori e l’addio non solo alla madre, ma anche ai cliché siculi più tipici, tipo fichi d’india e coppole e carretti. Al loro posto, una riflessione sulla religiosità cattolica più tradizionale e ancestrale, con le sue Madonne-grandi madre mediterranee e il suo eterno barocco, quando all’«Inneggiamo!» la scena (di Francesco Bondì, i costumi sono di Sara Marcucci) si apre in un tableau di sontuosità quasi pizziana. Bellissimo spettacolo, insomma.