Alberto Mattioli La Stampa
Una Carmen tascabile, chiaramente ispirata a quella di Peter Brook. Questa volta la regia è dell’Aliverta, quindi inconfondibile. Per definire i luoghi servono la carcassa di una Cinquecento e un chiringuito; per i personaggi, meno ancora: Carmen diventa una meccanica Anni Cinquanta, prima annoiata in tuta e poi panterona in zatteroni; Escamillo un venditore ambulante di salsicce con il suo triciclo a pedali, mentre José risulta al solito il più imbranato, ma stavolta è un imbranato fisicato in canotta. La riduzione drammaturgica rimpicciolisce l’opera ma non la tradisce; più che un bignami di Carmen, è un suo distillato, Carmen come archetipo di donna. Qui si potrebbe obiettare che non è questo il vero tema dell’opera, il cui soggetto è in realtà la libertà. L’importante è però che funzioni, e funziona benissimo, con la giusta dose di ironia e una regia molto «fisica» che trasforma il palcoscenico (che poi non c’è) in un ring attorno al quale si riunisce un pubblico un po’ guardone e un po’ avido di emozioni forti che gli vengono puntualmente servite, specie nel duetto finale, mozzafiato.